Black Panthers (1968) di Agnés Varda

 

La trama in breve:

La regista riprende il raduno organizzato dal Black Panthers Party nell’estate del 1968 a Oakland, in California, e finalizzato a scarcerare uno dei suoi leader: Huey Newton.

La questione “nera”, la violenza perpetrata contro gli afroamericani negli Stati Uniti è da anni al centro dei pensieri di molti autori, registi e produttori americani, e soprattutto negli ultimi dieci anni molti film di grandissimo successo sono riusciti a centrare il focus e portare avanti i pensieri alla base della protesta civile: “Black lives matter”, letteralmente “Le Vite Nere Contano”.

La questione ha fatto il giro del mondo in questi anni, perché è una questione di diritti primari, di diritto alla vita, e in questi giorni è rimbalzata anche nell’ambito del calcio, con gli Azzurri indecisi sul gesto dell’inginocchiarsi, ma tralasciamo questo ultimo fatto.

Tanti cineasti, su tutti Spike Lee, hanno trattato l’argomento; recentemente anche Roberto Minervini con “Che fare quando il mondo è in fiamme?” (What You Gonna Do When the World’s on Fire?), passato al Festival di Venezia.

In questo ambito è essenziale allora recuperare il lavoro prezioso di una grandissima regista, regista di finzione come di documentari, ovvero Agnés Varda.

Il documentario, in forma di cortometraggio, ci mostra le ragioni delle Black Panthers, il loro diritto a rivoltarsi contro una comunità bianca, e non solo, che vuole dividerli. Con immagini eccezionali per bellezza e potenza la regista ci fa ascoltare le parole dei protagonisti che manifestano per la liberazione del loro leader Huey Newton; come sappiamo l’arresto di Newton porterà poi ad una perdita di forza del movimento.

La Vardà da militante si schiera ovviamente dalla parte dei manifestati contro i “Maiali-la polizia”, contro lo Stato oppressore; siamo nel ’68, la rivolta è esplosa in tutto il mondo.

In meno di mezz’ora la regista riesce a dirci molto, anzi moltissimo di una battaglia che oggi è tornata così prepotentemente nei tg americani e non solo, seppur con vesti diverse da quel del ’68. Del resto, la battaglia per la dignità della vita va oltre il colore la pelle e la nazionalità e diventata il volano per un interesse comune che porti ad una maggiore integrazione e relazione.

Le Black Panthers, come molti gruppi rivoluzionari, avevano un’idea politica ben delineata, vicina al marxismo, e questo elemento le faceva essere ancora più pericolose per il governo Usa, all’epoca presieduto da Lyndon B. Johnson e l’anno successivo da Richard Nixon.

Se si vuole addentrarsi nella questione, perlomeno dal punto di vista cinematografico, questo documentario risulta essere di grande importanza, oltre che per la bellezza estetica: la regia è attenta ai gesti, ai vestiti, a restituire la veridicità della protesta, ci mostra le Black Panthers per quello che erano, la mdp a mano segue il raduno, svela una comunità in protesta, ormai stanca degli abusi.

Un documento storico di grande rilievo, oggi da riscoprire e che assume un ruolo, forse, più importante rispetto all’epoca in cui è stato girato.

“I wish I knew how
It would feel to be free
I wish I could break
All the chains holdin’ me
I wish I could say
All the things that I should say
Say ‘em loud, say ‘em clear
For the whole round world to hear
I wish I could share
All the love that’s in my heart
Remove all the bars
That keep us apart
I wish you could know
What it means to be me
Then you’d see and agree
That every man should be free
I wish I could give
All I’m longin’ to give
I wish I could live
Like I’m longing to live
I wish I could do
All the things that I can do
And though I’m way overdue
I’d be startin’ anew
Well, I wish I could be
Like a bird in the sky
How sweet it would be
If I found I could fly
Oh, I’d soar to the sun
And look down at the sea
Then I’d sing ‘cause I’d know, yeah
And I’d sing ‘cause I’d know, yeah
And I’d sing ‘cause I’d know
I’d know how it feels
I’d know how it feels to be free, yeah, yeah
I’d know how it feels
Yes, I’d know
I’d know how it feels, how it feels
To be free, no, no, no”
(Nina Simone)

 

Di Matteo Bonanni

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