Il Braccio violento della Legge (The French connection) (1971) di William Friedkin

Non è mai semplice scrivere qualcosa su uno dei film “della vita”. Mi ricordo, da piccolo, che, entrando in salone, mi ritrovavo spesso a leggere i titoli dei vhs di famiglia, e tra gli altri c’era “IL BRACCIO VIOLENTO DELLA LEGGE” (il maiuscolo è mio, perché era un titolo che tra gli altri si imponeva); leggermente cresciuto, rammento di averlo visto più volte con mio padre, e poi ovviamente da grande, fino alla visione al cinema di questi giorni.

La trama in breve

Jimmy Doyle, della squadra narcotici di New York, malvisto dai superiori per i suoi metodi poco ortodossi, è sulla pista di un grosso traffico di droga. Dopo un parziale insuccesso il caso gli viene tolto, ma lui continua le indagini. Quando finalmente è in grado di ottenere un importante risultato, non tutto va per il verso giusto.

Fin dai titoli, con quel “The French connection” che ti arriva addosso come un pugno (anche grazie alla musica di Don Ellis), il film ci porta in una spirale ossessiva; ecco, proprio l’ossessione è alla base di questo film e del suo protagonista.

Friedkin ha alle spalle tre ottimi film, ha già dimostrato di essere un regista dotato di capacità fuori dal comune, nel modo in cui affronta i generi, in cui si pone dietro la macchina da presa; ma è da questo film che diventa un autore tra i più influenti del periodo.

Il parallelo iniziale del film è sempre con “Bullitt”, il film di Yates con McQueen protagonista. Difatti anche quest’ultimo presenta la sua dose di ossessività, è un film che, come “The French connection”, riesce a mostrare la città dove viene girato con una luce diversa e poi c’è un inseguimento in macchina senz’altro eccezionale, che ora è portato ad estreme conseguenze mai viste prima. Friedkin e soci però puntano sul realismo, sullo stile documentario o quasi, partendo certamente da una storia vera ma più che altro attraverso delle riprese che a volte sfumano su dettagli, sovrappongono immagini e indugiano sulla violenza e sui corpi straziati (vedi l’incidente che viene mostrato con totale crudezza), sempre sperimentando.

Fin dal primo sparo a Marsiglia lo spettatore del’71 capisce di trovarsi difronte a qualcosa di mai visto, con il killer che spara in faccia al suo bersaglio da vicino, senza aggiungere altro e rubandogli poi un pezzo di pane; prima de “Il padrino” e dopo “Gangster story” certo, ma “The French Connection” porta certi livelli ad un qualcosa che fino all’epoca non si era visto,  in quanto ad esposizione della violenza sicuramente, ma soprattutto nello snaturare più generi, come fa anche, in parte,  il coevo “Ispettore Callaghan il caso scorpio e tuo” dell’immortale Don Siegel.

Ma non perdiamoci nei confronti: sono due film molto diversi anche se hanno per protagonisti due uomini violenti, due uomini visti allora dalla critica come esponenti di un modo di vedere le cose “fascista”. Popeye però è molto di più e va ben oltre, essendo un uomo senza una vita o quasi, che vive per il lavoro, per prendere i criminali, con metodi criminali, ed avendo giusto una passione feticista per gli stivali da donna.

Popeye, dicevamo, è un uomo ossessionato, vive giorno e notte per fermare questo colpo. La sua ossessione sarà, in modi molto diversi, riecheggiata da tanti protagonisti del cinema anni’70; compaiono il tormento, la fine degli ideali, la violenza, gli intrighi politici, l’impossibilità di giungere ad una “verità”, la necessità di combattere e poi inesorabilmente perdere. Possiamo dire che Popeye è uno dei primi personaggi di una lunga serie di perdenti ossessionati che faranno grande la New Hollywood.

Rimanendo ad Hackman, protagonista assoluto e ineguagliabile di questo film, sarà in ruoli diversi ma sempre ossessivi, in “La Conversazione” di Coppola, in “Bersaglio di notte” di Penn, lungo un decennio in cui sarà tante maschere, sempre in grado di cambiare registro; ma tanti sono i suoi simili e penso a Nicholson in “Chinatown” di Polanski, penso a Redford ne “I tre giorni del condor” di Pollack, e tanti altri se ne potrebbero citare.

Friedkin & co. dilatano certamente i tempi diegetici, i tempi del genere,a parte dagli inseguimenti, tra cui quello magistrale che porta allo sparo sulla scala che è raffigurato nei poster del film e che è uno degli inseguimenti più folli mai visti, in un’epoca in cui la computer grafica non esisteva (Friedkin poi porterà tutta questa sua follia anche in altri progetti come sappiamo) ; ma non solo, tutto è dilatato, alla ricerca del minimo dettaglio per essere realistici e credibili.

Credibili, ecco, il film ad oltre cinquant’anni di distanza rimane credibile proprio grazie a questi personaggi, così dettagliati, allo scontro tra gemelli opposti; Hackman è un brutale ed ignorante poliziotto, Rey è un raffinato, colto e furbo criminale senza scrupoli. Lo scontro tra gemelli tornerà più volte nel cinema di Friedkin, tra l’altro anche nell’epocale “Vivere e morire ad LA”.

La regia e la fotografia riescono a tracciare e mostrare le città. New York è una fogna a cielo aperto, è un luogo dove ti possono sparare per strada senza che nessuno rimanga stupito; Marsiglia è bella, solare, vitale, ma allo stesso tempo violentissima. Le scene notturne americane sono da antologia e la colonna sonora, come detto, scandisce il ritmo del film, sottolineando i momenti più incisivi.

Oltre ad Hackman, in uno dei tanti ruoli che hanno fatto la storia del cinema, c’è Rey che è grandioso, malefico eppure incredibilmente affascinante. Del resto Friedkin ha molto più interesse nei ruoli moralmente scissi che non nei personaggi semplici e piatti, si pensi tra i tanti al personaggio interpretato da Al Pacino in “Cruising”; e poi non si può non citare Roy Scheider in tutta la sua bravura, che riesce ad essere il perfetto contraltare al ruolo di Popeye.

Il film è uscito in un anno a dir poco entusiasmante, quando cioè tra gli altri film vede la luce “Arancia meccanica”; vincendo 5 Premi Oscar.

Ma non posso non soffermarmi sul finale, il finale è uno dei finali più ossessivi mai girati ad Hollywood. Popoye insegue il francese, il suo incubo, un fantasma praticamente, e nel farlo spara al collega (che lo aveva accusato per tutto il tempo di aver ucciso un “bravo poliziotto”, il suo partner), uccidendolo. Continua però, imperterrito, come se niente fosse, come se esistesse solo quella caccia al criminale, come se non ci fosse null’altro; lo vediamo infatti addentrarsi in questo luogo abbandonato e scuro, con la Mdp che lo lascia andare; non lo avvistiamo più, ma sentiamo uno sparo. Ecco che lo schermo diventa nero ed è finito il film.

Allora non conta nulla dove era diretto quello sparo, quello sparo è l’emblema dell’ossessività del film e del suo protagonista e il decennio appena iniziato traccerà questa ossessività su tanti, diversi, crinali.

Hackman poi sarà ancora Popeye, quattro anni dopo, diretto da John Frankenheimer, in un film molto diverso, regalando però un’altra prova da antologia.

In chiusura. L’ennesima visione del film mi ha permesso di evidenziare quanto, oltre che per il successo ottenuto, la scelta di affidare a Friedkin un film così complesso come “L’esorcista”, sia stata incredibilmente riuscita; dirlo dopo è più facile, ma forse nessuno poteva dirigere in quel modo un altro film che ha fatto epoca e anzi è ben più conosciuto di “The French connection”, che ha comunque stravolto i canoni dei generi poliziesco, noir (il protagonista prende alcune ossessioni e compulsioni dai protagonisti del noir americano) e dramma, portandoli ad una nuova veste.

Precedente Il ladro che venne a pranzo (The Thief Who Came to Dinner) (1973) di Bud Yorkin Successivo Neo-Noir