La storia di Ruth, donna americana (Citizen Ruth) (1996) di Alexander Payne

Di Matteo Bonanni

La trama in breve

La trentenne Ruth Stoops è talmente rovinata dalla droga da ridursi a sniffare colla e vernice, e per di più ora deve affrontare un’imminente ed ennesima maternità (alle spalle ha altre quattro gravidanze interrotte). Ma quando il giudice decreta la sua incapacità di tener fede agli obblighi genitoriali, la ragazza viene cooptata da Gail Stoney, moglie del presidente di un comitato anti-abortista; ovviamente i sostenitori del libero arbitrio intervengono, e la povera Ruth diventa suo malgrado il centro di una strenua querelle fra fazioni avverse.

L’esordio di Payne dimostra subito le capacità del regista, a cominciare dalla prima scena in cui il regista ritrae un momento di sesso non appagante. Ruth la protagonista è una tossicodipendente che vive per strada e annusa tutto quello che trova per sballarsi. La sua faccia, mentre l’uomo, che poco dopo la caccerà dalla topaia dove sono, agisce, è in primo piano, annoiata e sconfortata. Ruth è interpretata da una bravissima Laura Dern, musa di Lynch, all’epoca anche già in “Jurassick Park”.

Lo scontro che nasce poco dopo questo incipit tra antiabortisti e sostenitori della libera scelta femminile è un duello rusticano in un Nebraska, lo stato del regista che spesso tornerà nel suo cinema, degno di un western con tanto di agguati e minacce.

Una commedia grottesca che prende spunto da un tema drammatico e importante come il diritto all’aborto, e da questo mette in scena una società spaccata in due, fatta di eccessi e propaganda, dove le due diverse fazioni fanno di tutto per veicolare un messaggio, cosa che invece non interessa a Payne, che scrive insieme al fidato Jim Taylor.

L’incontro, inizialmente salvifico, con questa strana famiglia che poi si dimostrerà essere sostenitrice di questo movimento “bimbi salvati” pro-vita, ci mostra da subito con eccentricità e in modo grottesco alcuni elementi dell’America mostrata dal regista. Persone che difendono strenuamente la vita di un feto ma allo stesso tempo hanno fucili in casa e sono pronti ad usarli. Tutto il film è giocato su queste forti contrapposizioni, fino all’apoteosi finale.

Il ritmo e il clima del film, pur appartenendo alla scena indie americana anni ’90, hanno un qualche richiamo all’eccentricità del cinema anni’70 (si pensi poi all’omaggio diretto al periodo del recentissimo “The Holdovers” sempre del regista); i personaggi fuori dalle righe, la satira feroce, l’impianto corale, sembra quasi di vedere un Altman ma meno politico.

Al livello registico Payne dimostra già di essere in grado dirigere una storia complessa, seppur lineare, affidandosi anche a trovate ed inquadrature originali. In questo universo grottesco della vita di “Citizen Ruth” (quel Citizen non può che far venire in mente il ben più famoso “Citizen” Kane) ci sono momenti spericolati e momenti di forza visiva.

Oltre ad una bravissima Dern in un ruolo comunque anomalo, c’è un cast eccezionale in cui spiccano Smith e il cameo di un Reynolds già in versione “alternativa” che poi tornerà alla ribalta con Anderson l’anno dopo.

Payne sceglie di aprire il suo cinema con una storia femminile, con una protagonista donna, con un cast in maggioranza fatto di donne, su un tema che le riguarda. Non tratta bene nessuno in assoluto; se ridicolizza gli antiabortisti, non è più leggero con gli avversari tanto che alla fine la protagonista viene mostrata come incapace di venir meno alla sua dipendenza, incapace di provare un sentimento per i figli e quindi vogliosa solo di “svoltare” grazie al denaro (la scena dell’apertura della borsa contente i soldi è efficacissima).

Il suo cinema continuerà poi ad indagare personaggi incapaci di superare molte avversità; se vogliamo anzi il finale del film riscatta la protagonista che riesce a scappare, mentre non sarà così per i protagonisti (penso a Jim McAllister in “Election” e a Warren Schmidt in “ A proposito di Schmidt”) dei successivi film di Payne.

Alle scene più dure e ai siparietti grotteschi fa da contraltare una colonna sonora tipicamente anni’90 che stempera gli umori e i toni come a tener sotto controllo il tutto, come a non voler andare oltre.

Un piccolo cult, si può dire, pieno di momenti divertenti: tutte le scene in cui la protagonista dice quello che pensa sono assolutamente da godere, interpretato con grande voglia dall’intero cast, diretto con armonia da un giovane regista, all’epoca trentacinquenne, che dimostra di sapere già cosa dire e come farlo.

Payne continuerà col dipingere un’America, soprattutto nel Nebraska, fatta di rapporti tra genitori e figli che non si riescono a costruire, fatta di fughe dalla propria realtà (che sia in macchina o attraverso la droga), fatta di piccoli perdenti, di idiosincrasie, di momenti di esili felicità. In questo esordio si è maggiormente concentrato  sul ritratto di una nazione piena di contradizioni, dove tutto diventa spettacolo e propaganda, dove il corpo, con annesso feto, di una donna contano solo per dimostrare un assunto. Un esordio da ricordare di un regista che poi abbiamo imparato ad amare.

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