Black Dahlia (The Black Dahlia) (2006) di Brian De Palma

Di Jacopo Wassermann

«I’m not talking about the blues you get when you’re waiting for a $10,000 royalty check and it turns out to be only $9,000,
or the blues because your best girl walked out on you and you had to go back to your fourth wife,
or even the blues because somebody said the blues is making bread this year and you can cry yourself a river of juke box quarters if you wail the blues long enough and loud enough.
I’m just talking about good, uncomplicated, sincere musicians who play the blues when they feel like playing the blues.»
Leonard Feather

Queste righe accompagnano la copertina dell’LP Midnight blue del chitarrista Kenny Burrell, ma, parafrasando, si adatterebbero altrettanto bene al funereo noir di Brian De Palma, tratto dall’omonimo romanzo The black dahlia di James Ellroy. In entrambi i casi, non c’è bisogno di ritrovarsi pienamente negli scenari tragicomici postulati dal buon Feather per poter apprezzare la maestria di Burrell, De Palma o Ellroy, ma di sicuro li si capisce meglio quando la vita ti ha già giocato un brutto scherzo.
In un’era dominata dalla ricerca della gratificazione istantanea, è difficile convivere con l’attesa, concedere il tempo necessario alla maturazione personale e alla comprensione.

The black dahlia esige tempo allo spettatore: tempo di vita e di concentrazione, prima, durante e dopo i titoli di coda. Forse anche per questa ragione, nonostante l’attraente sontuosità delle scenografie di Dante Ferretti e della fotografia di Vilmos Zsigmund (candidata all’Oscar), il film non trovò il suo pubblico e, ad oggi, continua a essere considerato con una certa freddezza. Il che è ironico, considerato che, per ammissione dello stesso De Palma, accettò di dirigerlo con l’obiettivo specifico di ripetere il successo commerciale che gli sfuggiva dai tempi di “Mission: impossible”.

Ma anche tragico, se si pensa che, a causa dell’insuccesso di “The Black Dahlia”, De Palma si è poi dovuto adeguare a produzioni sempre più esigue e modeste. Tutto ciò conferma il vecchio adagio su Hollywood e sulla natura dei suoi “affari,” ma rivela anche il rovescio della medaglia: precisamente perché si tratta solo di affari, l’opportunismo può diventare la forma prediletta e paradossale per esprimersi candidamente, senza distrazioni o velleità narcisistiche.

Volendo azzardare un’ipotesi giocosamente psicanalitica, il punto di rottura del protagonista Dwight ‘Bucky’ Bleichert (interpretato da Josh Hartnett) riflette quello di De Palma: scelto dai suoi superiori nel distretto di polizia di Los Angeles per competere in una farsa pugilistica dalla quale sperano di ottenere un aumento di fondi municipali, Dwight scommette contro sé stesso e si lascia battere dall’avversario Lee Blanchard (Aaron Eckhart), che diventerà poi suo collega nella divisione dei Mandati. La motivazione per compiere questo cruciale sacrificio della sua integrità (in un’osservazione fuori campo, dichiara di non aver mai perso una partita a soldi prima) è il desiderio di offrire migliori condizioni di vita al padre, immigrato tedesco affetto da demenza.

Di nuovo ritroviamo la dualità del compromesso: Dwight si mette in vendita, non per guadagno personale, bensì per senso di dovere filiale. De Palma è un disilluso: sa perfettamente che le buone intenzioni non bastano a proteggere dal male. E così, mette in scena il ring come se si trattasse di un altare sacrificale, mostrando l’ambigua gioia del pubblico mentre il corpo e l’anima di Dwight sono permanentemente deturpate: Dwight abbassa volontariamente la guardia e un uno-due ben assestato di Blanchard gli fa volare via gli incisivi.

Proseguendo una lettura simbolica, si potrebbe far notare come il pensiero esoterico attribuisca agli incisivi superiori la valenza archetipica delle figure parentali, e di come questo renda Dwight, di fatto, un orfano, separato dai garanti dell’autorità e della morale che dovrebbero proteggerlo e istruirlo. La scena immediatamente a seguire, nella quale un dentista colloca una protesi per coprire la gengiva esposta del protagonista, acquisisce allora un significato profondo: Dwight entra nel regno del simulacro, un luogo dal quale, complice il caso della dalia nera, non riuscirà più a uscire.

Emblematici in questo senso sono due momenti chiave del terzo atto: l’inquadratura che cattura il riflesso moltiplicato di Dwight quando questi scopre il tradimento del collega Blanchard e della compagna Kay (Scarlett Johansson), e l’allucinazione conclusiva del cadavere di Elizabeth Short (Mia Kirshner). In entrambi i casi si assiste a uno scollamento fra immagine e realtà che non sarà mai veramente sanato.

Il tema della perdita dell’innocenza percorre tutta l’opera di De Palma. È questa sensazione primordiale, quasi infantile, che accomuna i protagonisti dei suoi film, indipendentemente dal loro cinismo di superfice, ed è la sua forza devastante che motiva gli eccessi del regista.

In The black dahlia, tuttavia, De Palma lavora in sordina, come il trombettista e compositore Mark Isham quando sospira il tema principale della sua bellissima colonna sonora. Coerentemente, il suo approccio al genere non può dirsi pienamente post-moderno, com’era il caso di “Dressed to kill” e “Body double”, poiché The black dahlia non punta a sovvertire o ironizzare sugli stilemi del noir. Nemmeno si tratta di un noir “classico” nel vero senso della parola, visto che De Palma può permettersi di mostrare violenza e sessualità in modo esplicito, oltre a prendersi delle libertà rispetto alle regole usuali di caratterizzazione e struttura narrativa. Si potrebbe definirlo “neo-classico,” un ritorno idealizzato alle forme del passato atto a contrastare espressioni artificiose (in questo caso, post-moderne) che non rispondono più alla visione del mondo attuale. Solo che, in The black dahlia, poco o nulla può considerarsi idealizzato, e men che meno la tradizione cinematografica.

Se è vero che Ellroy e De Palma offrono una “soluzione” al mistero laddove mancò nella realtà storica, è altrettanto chiaro che il vero colpevole non sia un agente umano, bensì lo stesso cinema. Il suo potere totalizzante manipola capitale, corpo e psiche, ragion per cui l’omicidio di Elizabeth Short implica tutto e tutti: una volta che la sua immagine raggiunge lo schermo, i personaggi (e noi con loro) non riescono e non vogliono più smettere di guardare.

The black dahlia è quindi un film sulla sconfitta, sul fallimento più totale, ma De Palma, integro opportunista, rimane fedele al consiglio spassionato che l’allibratore di Dwight proferisce alla vigilia dello scontro che segnerà il suo destino: se devi proprio andare al tappeto ,«make it look good.»

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