Oppenheimer (2023) di Christopher Nolan

Di Jacopo Wassermann

Bisogna dargliene atto: i film di Nolan riescono sempre a suscitare un piacere perverso, una volontà di scoprire gli altarini e capire finalmente il gioco del regista. A dispetto della durata e del rigore storico, Oppenheimer non è un’eccezione. A partire dalla prima immagine, in cui assistiamo all’ondulazione provocata dalla pioggia sulla superficie di una pozzanghera, avvertiamo istintivamente un significato più profondo, per il momento inesprimibile, ma che sappiamo verrà svelato a tempo debito. Il piano è ripreso dall’alto verso il basso, con camera a mano, come se si trattasse dello sguardo a capo chino di un passante che cerchi riparo dalla pioggia. Il movimento, però, è sommesso, senza fretta, e la scala dell’inquadratura è un po’ più ingrandita di una prospettiva “naturale.” Non c’è nessun controcampo, ma non è un caso che il film si chiuda proprio su un primo piano di Cillian Murphy, nei panni di Oppenheimer, mentre osserva la superficie increspata di un laghetto nel campus dove lavora. Sguardo e oggetto sono separati, eppure funzionano all’unisono.

Come al solito, il cinema di Nolan, concettualmente, formalmente, non fa una piega. Ma questo è un bene? Riformulo: la coerenza assoluta fra soggetto e forma è sinonimo di qualità, di significato, di valore artistico? O è segno di pura funzionalità?

La forma-Nolan è propulsiva, basata su un ritmo di montaggio rapido e sincopato. È capace di sintetizzare processi altamente complessi nell’arco di pochi secondi, rendendoli sufficentemente comprensibili da non compromettere lo svolgimento dell’azione. La sua essenzialità deriva dall’uso di ellissi, dall’omissione dei passi intermedi fra due estremi. Questo principio è applicato strutturalmente e, a volte, all’interno di una stessa scena. Non è raro che Nolan mostri soltanto i momenti culminanti, lasciando il loro svolgimento sottinteso, con l’intuito di trattenere informazioni dallo spettatore, o più semplicemente per mantenere il passo accelerato che lo contraddistingue.

Il suo interesse, potremmo dire il suo carburante, è fondamentalmente drammatico. Nolan non sa gestire tempi “morti,” o meglio, momenti basati sull’evocatività dell’ambiente e della durata, appunto perché la sua forma li rifugge, li elimina come scorie. Ma proprio in quanto scorie ne restano delle tracce. Basti pensare che la sua fama di cineasta si basi, in buona misura, sulla sua visionarietà, pretesa o effettiva che sia: i paesaggi onirici di Inception, i viaggi siderali di Interstellar, l’entropia invertita di Tenet, o, nel caso di Oppenheimer, le visioni apocalittiche dei fisici d’inizio secolo.

Ovviamente, un interesse prevalentemente drammatico non è incompatibile con un approccio autenticamente cinematografico. Questo ci riporta al punto di partenza: cosa vuol dire “autenticamente cinematografico”?

Se ci si riferisce alla capacità uniformatrice del dispositivo di appianare e asservire la molteplicità dei mezzi tecnici e umani a una visione totalizzante, Nolan soddisfa pienamente i requisiti. Direi anzi che li oltrepassa: più che totalizzante, la sua è una visione totalitaria. Niente è lasciato al caso, non esiste alcun contrappunto, conflitti e contraddizioni sono di ordine puramente narrativo. La volontà di potere del regista si estende al di là di questioni di estetica cinematografica: i suoi film sono pensati su misura di una certa tecnologia, di una certa esperienza fenomenologica, di certi discorsi critici. Le sue scelte non si limitano alle usuali mansioni di regia: pretende scegliere per noi come vedere e interpretare il suo lavoro.

Oppenheimer, dunque, ben più di un excursus sulle responsabilità morali della scienza moderna e della politica statunitense, si rivela essere una parabola sull’ambizione smisurata: quella dell’omonimo protagonista in primis, seguita da quella prometeica del genere umano e, per finire, quella dello stesso regista, sorta di novello Oppenheimer dell’industria cinematografica contemporanea.

Nolan è in buona compagnia: Hitchcock e soprattutto Kubrick sono due modelli illustri per il suo modo di intendere il cinema. Non è il caso di portare il paragone troppo in là, la differenza abissale fra le loro filmografie parla da sola. Basti osservare che Nolan livella ancora più di loro la forma cinematografica, a eccezione forse del missaggio, che usa per creare effetti stridenti e viscerali. In una delle sequenze conclusive del film, durante la quale Oppenheimer cerca di difendersi dalle accuse di tradimento e incompetenza da parte di una commissione di sicurezza, la colonna sonora roboante e le grida degli attori risultano in una cacofonia alienante, un rumore incomprensibile e insopportabile che mi ha astratto completamente dallo spettacolo per diversi minuti. Non credo si sia trattato di un caso: in combinazione con l’uso di sovraesposizione, Nolan cerca di restituire la percezione intima ed estremizzata del protagonista in un momento limite della sua carriera. Di nuovo, funzionale lo è di certo; un po’ forzato, pure.

Partendo dal presupposto che Nolan sia indubitabilmente uno dei registi della Hollywood contemporanea di maggior rilievo, e che, piaccia o no, sia anche un autore meticoloso, per nulla scontato da un punto di vista formale, non credo che un approccio critico valutativo abbia molto senso nel suo caso, e non perché tutto quello che fa funzioni, anzi. Non ha senso perché, con uno come Nolan, ciò che importa è cercare di capire le sue scelte, siano esse esteticamente valide o meno.

Oppenheimer ha perlomeno il merito di aver sottratto Nolan dal cinema di vuoti stratagemmi e sotterfugi nel quale si trovava invischiato da più di una decina di anni, ampliando lo sguardo storico già sperimentato in Dunkirk e riducendone (ahimè, senza eliminarla del tutto) la fastidiosa carica patriottica. Dobbiamo essere grati per questi “piccoli” doni piovuti dal cielo infuocato.

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